L’Italia non è un paese per vecchi. A far le spese della spending review sono (anche) gli anziani


L’Italia è un Paese demograficamente vecchio, nel quale aumenta progressivamente la richiesta di prestazioni sociosanitarie residenziali per le persone ultrasessantacinquenni non più assistibili presso il proprio domicilio.

Il tema investe delicati profili di interesse sociale, politico, economico e legislativo poiché si tratta di servizi costosi (una media di euro 110,00 al giorno) ed è stato, nel corso degli ultimi dieci anni, oggetto di un corposo quanto altalenante contenzioso sulla natura delle prestazioni sociosanitarie di lungodegenza in RSA (Residenza sanitaria Assistenziale); sul riparto di competenze fra Stato e Regioni; sulla qualificazione delle posizioni soggettive coinvolte; sul riparto di giurisdizione; sull’inquadramento del rapporto “trilaterale” fra privato, Amministrazione ed enti convenzionati che erogano le prestazioni; sulla legittimità, da ultimo, del coinvolgimento dei familiari tenuti agli alimenti nel pagamento delle rette per la degenza del proprio caro in struttura.

Al centro delle varie querelles giurisprudenziali, il vil denaro, ovvero se i costi delle RSA debbano essere a carico degli assistiti, anziani o persone affetta da disabilità, delle loro famiglie (in una visione anacronistica e patriarcale della famiglia) o della collettività, e in che misura.

Posto che ognuno di questi temi meriterebbe separato approfondimento, in questa sede ci limiteremo ad analizzare l’evoluzione normativa dei criteri di finanziamento delle prestazioni di degenza in RSA (Residenze sanitarie Assistenziali), con particolare riferimento alla nuova disciplina sulla determinazione della quota a carico dell’utenza, introdotta con D.P.C.M. 159 del 3 dicembre 2013 “Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE)” (Decreto ISEE), in vigore dal 1 gennaio 2015 e – come vedremo – subito messa duramente alla prova da tre recenti sentenze del TAR Lazio.

Il contesto normativo

Le prestazioni di degenza in residenze sanitarie assistenziali (RSA) per disabili gravi e ultrasessantacinquenni non autosufficienti rientrano nei LEA, livelli essenziali di assistenza, come da combinato disposto degli art. 54 l. 289 del 2002, art. 1 e 3-septies d.lgs. 502 del 1992, D.p.c.m. 29 novembre 2001, allegato 1, lettera H. Si tratta di “prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria […] caratterizzate da particolare rilevanza terapeutica e intensità della componente sanitaria” (art. 3-septies, comma 4, d.lgs. 502 del 1992) e proprio in ragione della duplice rilevanza, sanitaria prima che sociale, il legislatore ha previsto che il pagamento delle rette di permanenza nelle residenze sanitarie assistenziali (RSA) per soggetti ultrasessantacinquenni non autosufficienti sia ripartito fra diverse istituzioni. Il 50% è posto a carico del S.S.N. e il restante 50% a carico dei Comuni, con l’eventuale compartecipazione dell’utente secondo i regolamenti regionali o comunali (D.p.c.m. 14 febbraio del 2001, richiamato dall’art. 54 della legge 289 del 2002).

Ente titolare delle funzioni amministrative concernenti le prestazioni socio sanitarie de quo, e quindi competente a determinare l’ingresso in RSA, la suddivisione dei relativi costi e le ulteriori vicende della degenza è il Comune di ultima residenza dell’assistito (art. 6, l. 328/2000). L’iter burocratico prevede l’apertura di un procedimento amministrativo di presa in carico della persona bisognosa da parte dei servizi sociali, passa attraverso l’istruttoria socio sanitaria dell’apposita commissione (UVM – Unita’ di valutazione multidimensionale) che delibera il piano terapeutico (PAP – Piano assistenziale personalizzato) e si conclude con un provvedimento amministrativo, se del caso, di inserimento in struttura.

Nel medesimo procedimento amministrativo, viene inoltre ripartito il costo della prestazione, con modalità e criteri individuati puntualmente dal legislatore nazionale fra Asl, Comune e utenza, indicati nel DPCM 14 febbraio 2001, Allegato 1. In particolare, in ragione della duplice rilevanza sanitaria prima che sociale di questa tipologia di prestazioni, il legislatore ha previsto che il pagamento delle rette di permanenza nelle residenze sanitarie assistenziali (RSA) per soggetti ultrasessantacinquenni non autosufficienti è ripartito per il 50% a carico del S.S.N. (quota sanitaria) e per il restante 50% a carico dei Comuni (quota sociale), con l’eventuale compartecipazione dell’utente (D.p.c.m. 14 febbraio del 2001, richiamato dall’art. 54 della legge 289 del 2002). In particolare, l’art. 6, comma 4 legge 328/2000 chiaramente impone al Comune di residenza dell’utente il pagamento della quota sociale della retta: “Per i soggetti per i quali si renda necessario il ricovero stabile presso strutture residenziali, il comune nel quale essi hanno la residenza prima del ricovero, previamente informato, assume gli obblighi connessi all’eventuale integrazione economica”.

Sulla carta, tutto bene, in pratica, poiché nell’era perenne della spending review, la coperta è sempre troppo corta, a rimanere scoperti sono – nemmeno a dirlo – i cittadini. Data la norma infatti nella sua concreta applicazione i Comuni hanno da subito – e illegittimamente ad avviso di chi scrive – iniziato a regolamentare la materia in modo da sottrarsi al proprio obbligo di pagamento scaricando sulle famiglie , emanando regolamenti che prevedevano la contribuzione comunale solo su espressa richiesta dell’utente, stipulando con le strutture accreditate convenzioni che autorizzano queste ultime a far firmare ai parenti dei degenti impegni fideiussori al pagamento della retta, prevedendo criteri funambolici di accesso alla “integrazione comunale”, computando nel reddito dell’assistito figli, nipoti e parenti entro il quarto grado, escludendo la possibilità di integrazione comunale in caso di esistenza di tenuti agli alimenti (artt. 433 ess. c.c.).

La determinazione della quota sociale a carico dell’utenza nella disciplina previgente e in giurisprudenza

Come detto, la disciplina nazionale prevede che i Comuni possano porre a carico dell’assistito un contributo economico per il pagamento della retta (quota sociale), determinato in base alla situazione economica dello stesso, valutata secondo i parametri ISEE (art. 25, Legge quadro sui servizi sociali n. 328/2000). La norma di riferimento, prima dell’entrata in vigore del nuovo ISEE era l’art. 3, comma 2 ter d.lgs. 109/98 secondo il quale per le prestazioni sociosanitarie assicurate nell’ambito di percorsi assistenziali integrati di natura sociosanitaria, erogate in ambiente residenziale (RSA), a persone ultrassessantacinquenni non autosufficienti, non si doveva conteggiare il reddito dei familiari componenti il nucleo anagrafico, ma esclusivamente la situazione economica del solo assistito: “Limitatamente alle prestazioni sociali agevolate assicurate nell’ambito di percorsi assistenziali integrati di natura sociosanitaria, erogate a domicilio o in ambiente residenziale a ciclo diurno o continuativo, rivolte a persone con handicap permanente grave, di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, accertato ai sensi dell’articolo 4 della stessa legge, nonché a soggetti ultrasessantacinquenni la cui non autosufficienza fisica o psichica sia stata accertata dalle aziende unità sanitarie locali, le disposizioni del presente decreto si applicano nei limiti stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta dei Ministri per la solidarietà sociale e della sanità. Il suddetto decreto è adottato, previa intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, al fine di favorire la permanenza dell’assistito presso il nucleo familiare di appartenenza e di evidenziare la situazione economica del solo assistito, anche in relazione alle modalità di contribuzione al costo della prestazione, e sulla base delle indicazioni contenute nell’atto di indirizzo e coordinamento di cui all’articolo 3- septies, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni”.

La mancata emanazione del successivo DPCM citato nella norma ha “aperto” la questione della natura cogente o meno della norma stessa, sulla quale la giurisprudenza si e’ per lungo tempo divisa in tre orientamenti:

– un primo orientamento, ampiamente maggioritario, riconosceva il necessario integrale rispetto del principio di evidenziazione della situazione economica del solo assistito, in quanto diretta espressione di principi costituzionali (artt. 3, 38, 53 e 117 co. 2 lett. m) Cost.) e dunque affermava la prevalenza della disposizione dell’art. 3 co. 2 ter d.lgs 109/1998 su eventuali normative regionali e/o comunali difformi;

– un secondo orientamento riteneva la norma immediatamente precettiva, ma non in senso assoluto: in assenza del DPCM attuativo ai Comuni veniva infatti riconosciuto un margine di discrezionalità nell’applicazione del principio di evidenziazione della situazione economica del solo assistito;

– un terzo orientamento riteneva infine l’art. 3, comma 2 ter d.lgs. 109/98 norma meramente programmatica inattuata, in assenza del DPCM attuativo.

In un panorama giurisprudenziale profondamente incerto, è intervenuto poi a più riprese il Consiglio di Stato, sia in sede consultiva che giurisdizionale, chiarendo che il principio della evidenziazione economica del solo assistito è un livello essenziale delle prestazioni, da garantirsi uniformemente sull’intero territorio nazionale. Le difficoltà economiche nelle quali si dibattono gli Enti locali devono trovare risposta in sede politica nazionale e finché non verrà emanato il DPCM apposito il legislatore nazionale e i regolamenti comunali non potranno discostarsi da tale principio: “La tesi che esclude l’immediata applicabilità della norma, in virtù dell’attuazione demandata ad un apposito d.p.c.m., benché sostenuta da questo Consiglio di Stato in sede consultiva (sez. III, n. 569/2009) non appare convincente ed è già stata disattesa dalla Sezione in alcuni precedenti cautelari (sez. V, ord. nn. 3065/09, 4582/09 e 2130/10), che hanno trovato conferma nelle più recenti sentenze (sez. V, sent. n. 551/2011; n. 1607/2011) della Sezione stessa, che il Collegio pienamente condivide. Deve ritenersi, quindi, che il citato art 3, comma 2 – ter, pur demandando in parte la sua attuazione al successivo decreto, abbia introdotto un principio, immediatamente applicabile, costituito dalla evidenziazione della situazione economica del solo assistito, rispetto alle persone con handicap permanente grave e ai soggetti ultra sessantacinquenni la cui non autosufficienza fisica o psichica sia stata accertata dalle aziende unità sanitarie locali. Tale regola non incontra alcun ostacolo per la sua immediata applicabilità e il citato decreto, pur potendo introdurre innovative misure per favorire la permanenza dell’assistito presso il nucleo familiare di appartenenza, non potrebbe stabilire un principio diverso dalla valutazione della situazione del solo assistito; di conseguenza, anche in attesa dell’adozione del decreto, sia il legislatore regionale sia i regolamenti comunali devono attenersi a tale principio, idoneo a costituire uno dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, mirando proprio ad una facilitazione all’accesso ai servizi sociali per le persone più bisognose di assistenza”.

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Successivamente alle menzionate pronunce del Consiglio di Stato, il TAR Toscana veniva chiamato a giudicare sulla correttezza della determinazione – da parte della Comunità montana del Casentino – della quota sociale posta a carico di un cittadino disabile, malato di SLA e inserito in RSA, calcolata tenendo in considerazione oltre al reddito dell’assistito anche quello del coniuge e del figlio maggiorenne in ossequio all’art. 14 della legge della Regione Toscana n. 66 del 2008 il quale, in contrasto con l’art. 3 comma 2 ter d.lgs. 109/98, prevede che la quota di compartecipazione dovuta dalla persona assistita ultrasessantacinquenne sia calcolata tenendo conto altresì della situazione reddituale e patrimoniale del coniuge e dei parenti in linea retta entro il primo grado.

Nell’ambito del giudizio veniva quindi sollevata questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 14, comma 2, lettera c), della legge della Regione Toscana 18 dicembre 2008, n. 66, (Istituzione del fondo regionale per la non autosufficienza), in quanto dispone che nel caso di prestazioni di tipo residenziale a favore di persone disabili “la quota di compartecipazione dovuta dalla persona assistita ultrasessantacinquenne è calcolata tenendo conto altresì della situazione reddituale e patrimoniale del coniuge e dei parenti in linea retta entro il primo grado” e cio’ in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto contrastava con l’art. 3, comma 2 ter, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 109, che imponendo di evidenziare la situazione economica del solo assistito, anche in relazione alle modalità di compartecipazione al costo della prestazione a favore di soggetti ultrasessantacinquenni con handicap permanente grave accertato dalle aziende sanitarie locali, costituisce un livello essenziale delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 296 del 19 dicembre 2012, dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale, poiché in assenza del DPCM di attuazione la norma ha sostanzialmente natura programmatica. Del resto, prosegue la Corte, il contenuto dell’art. 3, comma 2 ter d.lgs. 109/98 non costituisce un LEA (Livello Essenziale di Assistenza), né può esser ritenuto un LIVEAS (Livello Essenziale delle Prestazioni Sociali) e, senza una specifica normativa sui LIVEAS (la legge 328/2000 è rimasta sul punto inattuata e comunque e’ superata dalla riforma del titolo V della Costituzione che trasforma e amplia la competenza regionale in materia), non c’è modo di verificare se le prestazioni di degenza in RSA rientrino o meno nel principio della sola evidenziazione del reddito dei medesimi. Pertanto, l’assenza di un’organica disciplina dei LIVEAS consente alle Regioni (e a cascata ai Comuni) di prevedere autonomamente i criteri da adottare per la determinazione delle quote sociali.

La Corte Costituzionale chiude poi il cerchio, rammentando che l’intera materia e’ in corso di sostanziale revisione, posto che l’art. 5 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 prevede che con DPCM si proceda alla revisione delle modalità di determinazione e dei campi di applicazione dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) che tenga conto delle quote di patrimonio e di reddito dei diversi componenti della famiglia.

L’arresto del Giudice delle Leggi ha, chiaramente, posto fine a tutte le precedenti oscillazioni della giurisprudenza di legittimità e di merito, che dal dicembre 2012 si sono stabilmente allineate alla pronuncia della Corte.

La determinazione della quota sociale nel nuovo Decreto ISEE

L’intervento della Corte Costituzionale del 2012 e la modifica normativa della disciplina sull’ISEE del 2013 hanno profondamente modificato la disciplina della compartecipazione dell’utenza ai costi per la degenza in RSA. La materia è stata infatti disciplinata ex novo dal DPCM n. 159 del 3 dicembre 2013, che modifica i criteri di determinazione dell’ISEE per le prestazioni agevolate di natura socio-sanitaria, creando una disciplina sicuramente peggiorativa rispetto alle previsioni precedenti ed economicamente molto gravosa per anziani e disabili.

Il decreto elimina, infatti, il riferimento alla “evidenziazione del reddito del solo assistito”, contenuto all’art. 3, comma 2 ter del d.lgs.109/98 per la determinazione della quota sociale per la degenza in RSA, e dedica un intero articolo alle prestazioni agevolate di natura socio-sanitaria rivolte a persone di maggiore eta’: per tali prestazioni si prende in considerazione il reddito prodotto dall’intero nucleo familiare del degente, composto – oltre che dall’assistito – dal coniuge, dai figli minori di anni 18, nonche’ dai figli maggiorenni (art. 6, comma 2). In alternativa a quanto nucleo familiare “predeterminato dalla norma” l’utente puo’ alternativamente scegliere di indicare i redditi prodotti dal nucleo familiare “ordinario”.

L’articolo 6, comma 3, lettera b), prevede poi – e questa è una delle novità peggiorative di maggior rilievo – che, in caso di ingresso in RSA, si deroghi ulteriormente alla composizione del nucleo familiare del richiedente la prestazione, e debbano essere considerati nel computo dei redditi di quest’ultimo anche i redditi dei figli non inclusi nel nucleo familiare. In questo caso, l’ISEE del richiedente e’ “integrato di una componente aggiuntiva per ciascun figlio, calcolata sulla base della situazione economica dei figli medesimi, avuto riguardo alle necessita’ del nucleo familiare di appartenenza”.

Il reddito dei figli non conviventi e non inseriti nel nucleo familiare del richiedente sara’ dunque calcolato ai fini ISEE per il calcolo della retta da pagare. Tale nuova regola prevede solo due eccezioni:

se il figlio o un componente del nucleo familiare di quest’ultimo sia disabile “medio, grave o non autosufficiente”, secondo una tabella allegata al decreto stesso (allegato 3);

– quando risulti accertata in sede giurisdizionale o dalla pubblica autorità competente in materia di servizi sociali la estraneità del figlio in termini di rapporti affettivi ed economici.

Quest’ultima norma appare decisamente singolare, e per certi versi oscura. Parrebbe che i figli che non abbiano più rapporti economici o affettivi con il genitore possano chiedere agli assistenti sociali che venga “accertata” tale estraneità, e cosi’ ottenere che il proprio reddito non sia incluso fra quelli del genitore per la determinazione della retta, oppure che in caso di diniego da parte degli assistenti sociali di compiere tale accertamento (e certificarlo) o ancora indipendentemente dall’intervento degli assistenti sociali, e magari anche in via preventiva, i figli possano rivolgersi al giudice ordinario affinché emetta una sentenza nella quale si accerti “la estraneità del figlio in termini di rapporti affettivi ed economici”.
Il decreto prevede, ancora, una franchigia da sottrarre al valore dell’indicatore della situazione economica (art. 4, comma 4 lett. d)) nel caso del nucleo facciano parte:

1) persone con disabilità media, per ciascuna di esse, una franchigia pari a 4.000 euro, incrementate a 5.500 se minorenni;

2) persone con disabilità grave, per ciascuna di esse, una franchigia pari a 5.500 euro, incrementate a 7.500 se minorenni;

3) persone non autosufficienti, per ciascuna di esse, una franchigia pari a 7.000 euro, incrementate a 9.500 se minorenni.

Infine, il decreto esplicitamente include fra i redditi da inserire nell’ISEE tutti gli emolumenti non imponibili ai fini Irpef (indennità di accompagnamento, pensione di invalidità, pensioni, indennità e assegni riservati agli invalidi civili, ciechi, sordi ecc) e crea una sorta di “presunzione di fraudolenza” a danno del richiedente. Secondo l’art. 6, comma 3, lett. c), infatti, “le donazioni di cespiti parte del patrimonio immobiliare del beneficiario avvenute successivamente alla prima richiesta delle prestazioni di cui al presente comma continuano ad essere valorizzate nel patrimonio del donante. Allo stesso modo sono valorizzate nel patrimonio del donante, le donazioni effettuate nei 3 anni precedenti la richiesta di cui al periodo precedente, se in favore di persone tenute agli alimenti ai sensi dell’articolo 433 del codice civile”. Qualsiasi donazione immobiliare compiuta nei tre anni precedenti la richiesta di ingresso, in favore delle seguenti categorie di parenti:

– coniuge;

– figli;

– genitori;

– generi e nuore;

– suoceri

verrà dunque considerata come non avvenuta, e il relativo valore economico sarà comunque inserito nella dichiarazione ISEE.

Il nuovo ISEE al vaglio della giurisprudenza

La nuova disciplina, in vigore dal 2 gennaio 2015, ha già subito una forte battuta d’arresto. In data 11 febbraio 2015 sono state depositate tre sentenze del TAR Lazio (Sez. I, n. 2454/15, n. 2458/15 e n. 2459/15), in altrettanti procedimenti contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che ne dichiarano illegittime alcune norme, modificando sostanzialmente l’impianto di calcolo dell’ISEE per le prestazioni agevolate di natura socio-sanitaria.

In particolare, le tre sentenze:

-annullano l’art. 4, comma 2, lettera f, del decreto ISEE, escludendo pertanto dal computo dei redditi ai fini ISEE i “trattamenti assistenziali, previdenziali e indennitari, incluse carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche”, posto che “Non è dato comprendere per quale ragione, nella nozione di “reddito”, che dovrebbe riferirsi a incrementi di ricchezza idonei alla partecipazione alla componente fiscale di ogni ordinamento, sono stati compresi anche gli emolumenti riconosciuti a titolo meramente compensativo e/o risarcitorio a favore delle situazioni di “disabilità”, quali le indennità di accompagnamento, le pensioni INPS alle persone che versano in stato di disabilità e bisogno economico”;

annullano l’art. 4, comma 4, lettera d), nn. 1, 2 e 3 del Decreto ISEE, nella parte in cui prevede un incremento delle franchigie per i soli minorenni.

Con gli interventi del TAR Lazio che favoriscono l’utenza, la modifica dell’ISEE rischia di diventare un boomerang per i Comuni, che in applicazione della normativa per come oggi vigente (decreto ISEE come modificato dalle sentenze immediatamente esecutive del TAR Lazio), dovranno contribuire economicamente in misura di molto maggiore rispetto al passato. Se si considera infatti che gran parte degli anziani ultrassesantacinquenni non autosufficienti percepisce esclusivamente la pensione minima sociale e l’indennità di accompagnamento, emolumenti che per l’effetto delle sentenze TAR non possono essere computati, e che in ogni caso va applicata una franchigia di 9.000,00 sui redditi prodotti, ne consegue che l’ISEE che ne deriverà sarà spesso pari o prossimo allo zero, con conseguente coinvolgimento economico del Comune di residenza per larga parte della quota sociale.

Ad oggi però nulla è cambiato e le sentenze del TAR Lazio, pur immediatamente esecutive, restano – illegittimamente –  lettera morta. L’INPS non ha infatti ancora aggiornato i software di calcolo in ossequio alle indicazioni del Giudice e la Presidenza del Consiglio dei Ministri, stando a quanto risulta dagli organi di stampa, avrebbe impugnato le sentenze innanzi al Consiglio di Stato, si immagina chiedendone la sospensione.

Nelle more dell’udienza, e della futura pronuncia del Consiglio di Stato i cui tempi sono ignoti quanto imperscrutabili, cosa ne sarà dell’ISEE delle persone non autosufficienti e disabili gravi? Su quali basi verrà computata la eventuale quota sociale a loro carico?

La risposta – immaginiamo – sia secondo il “nuovo ISEE” senza tener conto delle sentenze del TAR Lazio, con una pericolosa quanto economicamente gravosa deriva giudiziaria di nuove ed evitabili impugnazioni delle certificazioni ISEE o dei provvedimenti comunali di determinazione della quota su quell’ISEE fondati.

La resistenza ostruzionistica dell’amministrazione dunque continua e spiace rimarcare la totale assenza di coerenza di uno Stato che da un lato interviene per compensare situazioni di indigenza e fragilità, concedendo emolumenti che non sono qualificati come reddito ai fini IRPEF; dall’altro se li riprende e li gira indirettamente ai Comuni, evitando di fatto che somme equivalenti escano dalle casse comunali. Spiace rimarcare la tempestività del ricorso al Consiglio di Stato per impugnare le sentenze che demoliscono una delle roccaforti economiche dei Comuni, se paragonata alla esasperante inerzia di quello stesso Stato che in 15 anni non è stato in grado di emanare un DPCM per evidenziare “la situazione economica del solo assistito”[12].

Spiace, da ultimo, rimarcarne la carenza di lungimiranza e quella  miopia tutta italiana che mira a trovare soluzioni di facciata senza voler realmente eradicare il problema.

La scelta politica sottesa a quest’ultimo intervento normativo è chiara, le politiche sociali e le esigenze della terza età devono cedere il passo alle esigenze di bilancio; ma chi paga oggi 17.000 euro l’anno per la degenza di un solo genitore in RSA, contraendo finanziamenti ad hoc, domani non avrà le risorse per fare altrettanto per se stesso ne’ le avranno i suoi figli. I nodi verranno al pettine, ma saremo sempre in tempo per dar la colpa “a chi ci ha preceduto”.

Tar Lazio, sentenza n. 2459 del 2015

(Gia’ pubblicato su Questione Giustizia)