Libertà di circolazione dei beneficiari di protezione sussidiaria

dott.ssa Cristiana Olivieri

La libertà di circolazione è uno dei pilastri fondanti del sistema europeo, che mira a creare uno spazio comune dove le persone possano muoversi liberamente senza discriminazioni. La normativa su questo tema è assai ampia e riguarda sia direttive europee – tra le più importanti  la 2011/95 –  sia normative a carattere internazionale, come la Convenzione di Ginevra che costituisce la “pietra angolare” della normativa internazionale in materia di diritti dei rifugiati.
L’Unione Europea, in sede di redazione della direttiva 2011/95, ha più volte puntualizzato che, alla tutela accordata ai rifugiati, è necessario affiancare “misure relative a forme sussidiarie di protezione che offrano uno status adeguato a chiunque abbia bisogno di protezione internazionale” (riunione straordinaria di Tampere, 1999). Inoltre, la direttiva mira anche a garantire uniformità tra le varie legislazioni degli Stati membri, in modo tale da poter attuare norme il più possibile vicine tra i vari ordinamenti, definendo con precisione e univocità il concetto di rifugiato e di beneficiario della protezione sussidiaria.
La Corte di Giustizia Europea (cause riunite C443/14 e C444/14) ha chiarito l’ambito di applicazione della direttiva 2011/95 a seguito di un rinvio pregiudiziale del Giudice nazionale tedesco; quest’ultimo è stato chiamato a pronunciarsi sulla posizione di due cittadini siriani, già da molti anni in Germania, che fruivano di protezione sussidiaria. Ad essi veniva imposto di risiedere in una determinato distretto del territorio tedesco e tale obbligo di residenza ha costituito oggetto della contestazione davanti al giudice nazionale, che ha sottoposto alla Corte il quesito: tale obbligo è compatibile con la direttiva europea?
La Corte ha innanzitutto affermato che, sebbene la direttiva parli tecnicamente solo di rifugiati, comunque l’Unione tende a creare uno status uniforme a favore dell’insieme dei beneficiari di protezione internazionale, e quindi a concedere ai beneficiari di protezione sussidiaria gli stessi diritti di cui godono i rifugiati, salvo casi motivati e giustificati di deroghe alla disciplina ordinaria. Inoltre, la Convenzione di Ginevra, cui si rifà la direttiva, conferisce non solo la libertà di circolare a tutti i rifugiati, ma anche il diritto di scegliere il proprio luogo di residenza (non vale ad escludere tale possibilità neppure la prassi di ridistribuire sul territorio nazionale i beneficiari d protezione internazionale). Alla luce di tutto questo, la Corte afferma che l’obbligo di residenza nei confronti di un beneficiario di protezione sussidiaria rappresenta una restrizione della libertà di circolazione garantita dall’art. 33 della direttiva 2011/95, anche quando tale misura non vieti al beneficiario di spostarsi liberamente nel territorio dello Stato membro che ha concesso tale protezione e ne’ di soggiornare per un periodo in questo territorio al di fuori del luogo in cui ha obbligo di residenza.
Ulteriore questione rimessa al Giudice Europeo è se l’obbligo di residenza sia giustificato dal fine di ripartire in maniera adeguata ed equilibrata, tra diversi enti competenti, gli oneri relativi ad alcune prestazioni specifiche connesse allo status di protezione sussidiaria. Se l’art. 33 della direttiva è contrario all’imposizione di un obbligo di residenza, va comunque detto che può prevedere delle restrizioni alla libertà di circolazione. Esso precisa infatti che “il diritto dei beneficiari di protezione internazionale di circolare liberamente deve poter essere esercitato secondo le stesse modalità e restrizioni previste per altri cittadini di paesi terzi legalmente residenti nel territorio dello Stato membro che ha concesso detta protezione” – possibilità prevista anche dall’art. 26 della Convenzione di Ginevra.
Sul punto, l’interpretazione della Corte è decisa: “ (…) in virtù dell’articolo 33 della direttiva 2011/95, i beneficiari dello status di protezione sussidiaria non possono, in linea di principio, essere assoggettati, per quanto riguarda la scelta del luogo della loro residenza, ad un regime più restrittivo di quello applicabile agli altri cittadini di paesi terzi legalmente residenti nello Stato membro che ha concesso detta protezione”. Dunque, nessun obbligo di residenza è giustificato neppure sotto tale aspetto, neppure per razionalizzare gli oneri derivanti da cosiddetti “aiuti sociali” ricollegati allo status di protezione; l’art. 29 della direttiva, infatti, prevede che l’accesso di tali soggetti all’assistenza sociale non deve essere subordinato a condizioni non richieste anche cittadini dello Stato membro che ha concesso la protezione. Unico caso in cui la Corte ammette l’obbligo di residenza è quello in cui i beneficiari di protezione sussidiaria non si trovino in una situazione paragonabile a quella di persone non aventi la cittadinanza dell’UE, che risiedono legalmente nello Stato membro in questione o a quella dei cittadini di tale Stato. Dimostrare l’assenza di questa situazione comparabile è compito del giudice dello stato membro: se la situazione in cui versa il beneficiario di protezione internazionale che percepisce l’aiuto sociale e i residenti in Germania, che ugualmente percepiscono l’aiuto ma non sono cittadini UE, allora la direttiva ammette un obbligo di residenza dei primi, soprattutto al fine di assicurare la loro integrazione nel territorio. La Corte infatti afferma che “l’obbligo di residenza previsto dal diritto tedesco mira, da un lato, ad evitare la concentrazione di cittadini di paesi terzi percettori dell’aiuto sociale in alcuni territori e il formarsi di aree socialmente a rischio, con conseguenti effetti negativi per l’integrazione di tali persone, e, dall’altro lato, ad ancorare i cittadini di paesi terzi presentanti un bisogno di integrazione particolare ad un determinato luogo di residenza, affinché essi possano ivi usufruire dei servizi di aiuto in materia di integrazione”.